Da Francesco di Giulio, un romanzo distopico che fa eco al presente  

Castelchiodato e Monterotondo lo ospitano nella sua formazione; l’autore parla oggi di una città dove sono morte l’umanità, le emozioni e il libero arbitrio 

di Annamaria Iantaffi

Francesco Di Giulio, classe 1984, è nato a Brindisi ma si è subito trasferito a Castelchiodato, dove ha vissuto fino ai suoi 27 anni. Ha frequentato il Liceo Scientifico G. Peano, a Monterotondo; conosciuta Palombara Sabina per i corsi di pallavolo, vi si è trasferito per 4 anni, per poi passare un anno a Roma, e ancora ad Amsterdam. Qui ha vissuto per alcuni mesi, al seguito della moglie che doveva trasferirsi per lavoro, e ha lavorato lui stesso come Mastro Birraio nel birrificio sociale De Prael, che vantava una produzione di circa mille litri al giorno. Oggi abita a Bracciano. Tra il 2019 e il 2020 ha pubblicato per Il Seme Bianco i due volumi della saga L’Anello di HellCity 

Francesco, quando ha iniziato a scrivere, e per quale motivo? 

Il mio libro di esordio è un thriller medievale dal titolo La Libertà del pettirosso. Iniziato nel 2014, è stato pubblicato da una casa editrice non a pagamento alla fine del 2016. Il libro nasce da un incubo che ho vissuto in prima persona: al risveglio ero talmente spossato da quelle emozioni così crude che ho deciso di scriverne una storia. Così ho iniziato. Si dice di seguire i sogni, vero? Io l’ho preso alla lettera. 

Come è nata l’idea di L’Anello di HellCity, un romanzo distopico, una proiezione del mondo in un futuro angosciante, controllato dal Governatore?

Sono partito dal semplice presupposto che il confronto e il cambiamento con ciò che non si conosce non può far altro che accrescere il nostro bagaglio di esperienze. In Italia troppe volte guardiamo al diverso come ad una minaccia, come qualcuno che vuole invaderci e minare la nostra fiducia, quindi ho creato nella narrazione una zona di apparente sicurezza che ho chiamato HellCity. È una città militarizzata, l’ultima città della terra, popolata da cittadini-schiavi inconsapevoli della loro staticità. Nel mio libro scrivo che si è schiavi nell’inconsapevolezza. Infatti, i cittadini di HellCity vivono di apparenze, di dati e informazioni “taroccate” da servizi televisivi, sono controllati da un microchip sottocutaneo che segnala i loro movimenti. Tutta la popolazione è dotata di un palmare con il quale comunica a un sistema centrale le proprie azioni quotidiane: l’uscita dalle rispettive unità abitative, l’assunzione dei farmaci prestabiliti, l’arrivo sul posto di lavoro. Insomma, è tutto molto estremizzato ma non così distante da un reale possibile. 

La copertina dei due volumi di HellCity ritrae un uomo in felpa, si tratta di lei?

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Molti accostano quell’immagine a me, ma in realtà non sono io. O meglio, nella copertina quel ragazzo rappresenta Jayson, il protagonista, che è davanti ad un muro. Quel muro rappresenta il Cambiamento, quello con la c maiuscola. Abbiamo sempre paura di cambiare e spesso ci troviamo davanti ad una scelta, temiamo di uscire dalla nostra zona di confort. Siamo talmente assuefatti e distratti dal caos della vita, che dimentichiamo chi siamo e cosa vogliamo. Davanti alla scelta tra scavalcare il muro della città e andare incontro al nuovo o voltarsi e rimanere nell’ambiente rassicurante ma statico che conosciamo, cosa fare? Magari dietro quel muro si trova l’oceano più bello dell’universo, ma noi talvolta ci accontentiamo di rimanere a guardare la sua foto. Peccato che giorno dopo giorno, mese dopo mese, decennio dopo decennio, quella foto diverrà sbiadita e i nostri sogni, vaghi pensieri. 

Nel romanzo i protagonisti sono rivoluzionari che lottano con armi impari contro l’acquiescenza. Sta forse raccontando per metafora?

Nei due libri de L’anello di HellCity troviamo i ribelli che con armi piuttosto rudimentali effettuano delle incursioni nella città. Si muovono d’astuzia perché è l’unica arma che posseggono contro il regime cittadino e le spietate teste di cuoio della città. Sa perché credo che molti scrittori immaginino un futuro decadente, oscuro e caratterizzato da ritmi ossessivi? Per poter scrivere di riscatto. L’essere umano desidera poter sorridere alla luce del sole e anche nei momenti più bui, come quello che stiamo vivendo in questi mesi di clausura da Coronavirus, troverà per istinto la forza di concedere ai propri figli un futuro migliore. 

È notizia del 19 marzo che il Governo sta pensando a un’applicazione per geolocalizzare i movimenti degli Italiani positivi al Coronavirus, sulla scorta di quello che è accaduto in Corea. Lei cosa ne pensa?

Anche nel mio libro la sicurezza viene anteposta alla libertà personale e, in questo caso, la salute di noi cittadini viene messa in primo piano rispetto alla nostra libertà. Ovviamente gli scopi sono nettamente differenti. In HellCity la limitazione della creatività e delle aspirazioni hanno come fine ultimo il controllo per meri scopi autoritari. Nella realtà odierna le misure restrittive sono destinate a durare solo per un periodo limitato alla salvaguardia della nostra salute. Questo però ci deve fa riflettere su come, in pochi giorni, le autorità, qualora lo volessero, siano in grado di controllare gli spostamenti al centimetro di ogni singolo cittadino. Il controllo digitale e le cyber guerre non sono più il futuro, sono potenzialmente il presente.

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Quali sono i suoi autori di riferimento?

Ce ne sono molti degni di essere nominati. Il primo che mi viene in mente è David Icke, giornalista e autore di diversi libri di controinformazione. Lessi il suo primo libro a sedici anni. Rimasi stupito dal fatto che la storia e i fatti che accadono possono essere visti da diverse prospettive. Un altro scrittore che ammiro molto e che ho avuto la fortuna di incontrare è Glenn Cooper, medico e soprattutto autore di diversi romanzi storici a carattere d’azione. Ultimamente ho letto molto Charles Bukowski, che mi è stato d’ispirazione per il prossimo libro che uscirà in aprile. Leggere Bukowski è come prendere a pugni l’ipocrisia dilagante che i social alimentano, mettendo in competizione immagini e non anime.

In che modo essere cresciuto nella provincia nordest di Roma può aver condizionato la sua creatività? 

La provincia di Roma riconduce la mia mente ai momenti più belli della mia vita. Credo che essere adolescenti e vivere nella provincia sia qualcosa fa nascere dentro una grande voglia di scoperta. In provincia tutto scorre più lento e tutti ne godono i benefici. I pomeriggi da adolescente erano veramente infiniti: si usciva dopo pranzo e si tornava a casa solo al tramonto. Era la regola. Si giocava a pallone e si scappava dai Vigili Urbani che venivano a farti la ramanzina. Biciclette, boschi, nascondigli e primavere. Questa è stata la mia adolescenza. In provincia tutti sognano qualcosa d’irraggiungibile ma, sognando, ci si emoziona. E allora va bene così. Tiziano Terzani diceva che nella vita per essere felice bisogna accontentarsi e non aspettarsi nulla di grande, per non rimanerne delusi. Ho riflettuto sulla sua frase e credo che n questo modo tutto ciò che ci accadrà sarà una felice sorpresa. Proprio come gli adolescenti cresciuti in provincia.

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