Laurina, la più giovane centenaria di Monterotondo

La famigliola abitava infatti proprio di fronte alla “bullicara”, il lavatoio pubblico

Il 1° aprile del 1921, cento anni fa, era il venerdì precedente la domenica in Albis. Pochi giorni prima, i cinquemila abitanti di Monterotondo (al 31 dicembre il censimento nazionale ne conterà 5632) avevano come tutti festeggiato la Pasqua, che stavolta era “bassa” come si usa dire quando cade a marzo. Papà Nazzareno e mamma Leonilde avevano buoni motivi per essere in trepida attesa: stava per venire alla luce il loro quarto figlio, anzi: la terza femminuccia di casa Iannotti. E Laura si presentò puntuale all’appuntamento, fissato, come i precedenti, nell’abitazione familiare di via XXV aprile. La famigliola abitava infatti proprio di fronte alla “bullicara”, il lavatoio pubblico dove, in attesa che arrivassero le prime lavatrici quaranta o cinquant’anni più tardi, le donne del paese facevano il bucato, spesso usando anche le ceneri di scarto della vicina “mmazzatora”, il macello degli animali posto qualche centinaio di metri più a valle. Tenete a mente questo particolare: il perché verrà svelato tra un po’.

“I miei genitori avevano avuto già tre figli: il primo è stato Domenico nel 1913, poi Carolina due anni dopo, nel 1915, e quindi Delfina nel 1919” dice Laurina – il diminutivo col quale tutti la conoscono – elencando con sicurezza date e nomi. Una sua nipote, l’ottantaduenne Nunzia, figlia proprio della secondogenita Carolina, è lì vicino pronta a soccorrerla in caso di improvvisi e imprevisti vuoti di memoria: ma non ce n’è bisogno assolutamente. Laurina socchiude appena i suoi occhi chiari come a cercare un guizzo di concentrazione e ricomincia a snocciolare date e nomi: “L’anno dopo di me, nel 1922, è nata Lucia, poi Annita nel 1925, Giovanna nel 1926 e, per ultimo, Ugo nel 1930. I due maschi, insomma, hanno aperto e chiuso le danze e purtroppo sono stati anche quelli che sono morti prima, molto giovani.”

La tua è una famiglia monterotondese doc? le chiedo per farmi raccontare qualche scena di vita della Monterotondo di un secolo fa. “ Mia madre di cognome faceva Angelani ed era cugina di Paolo, sindaco del paese negli anni sessanta e pittore molto conosciuto – a lui è intitolata la biblioteca comunale sita nell’ex-ospedale vecchio di San Nicola; n.d.r. – mio padre invece era originario della provincia di Ascoli Piceno, ma era giunto a Monterotondo da bambino. Ha sempre lavorato in campagna, con gli animali, faceva il bovaro”. E questo è il secondo particolare da memorizzare, dopo la casa non molto distante dalla “mmazzatora”.

Nelle famiglie così numerose e con entrambi i genitori fuori per lavoro è normale che i figli più grandi accudiscano i più piccoli, in una sorta di asilo nido casalingo: “Infatti – sottolinea Laurina- a me è toccato fare da baby sitter – dice proprio così, in inglese – pure a qualche nipote, ma l’ho sempre fatto con piacere”. Intanto i traslochi si succedono e, aiutandosi alla meglio con carretti e carriole, la famiglia Iannotti/Angelani colleziona svariate abitazioni: “ Mi ricordo che una volta ho dovuto caricarmi una pila di rame durante uno di questi traslochi: il Borgo, via delle Monache, lo Sbracato”. Nomi che evocano il paese di una volta, quando la vita si svolgeva tutta dentro le vecchie mura dei Barberini, in parte già demolite per pavimentare il nascente Parco della Rimembranza; quando le bancarelle del mercato stavano a piazza dell’Erba, i fornai e i norcini a piazza dell’Orologio, quando la circonvallazione era la “strada nuova” e al Pratone c’era l’ippodromo dove correvano i cavalli di Tormancina.

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Laurina frequenta da bambina l’asilo comunale che stava al primo piano della palazzina dove c’è adesso e da moltissimi anni l’Agenzia Terracciano, e poi le scuole elementari al Palazzo Comunale. “Con la maestra Burani, ma mi sono fermata alla quarta” – sembra rammaricarsi Laurina, ma chi poteva permettersi di concludere tutto il ciclo scolastico in quegli anni? Molto pochi, e non solo in paese – “poi ho iniziato a fare
l’apprendista da una sarta e poi – conclude con un gran sorriso – ho conosciuto Malfeo e ho cambiato mestiere”.

Ed ora è arrivato il momento di svelare quale mistero si cela dietro i due indizi che sicuramente non avete dimenticato. Malfeo Marchini, classe 1917, il futuro sposo di Laurina fa il macellaio e il suo negozio è in via Oberdan. I due ragazzi si conoscono, forse Laurina scopre una passione inaspettata per le bistecche, fatto sta che il 1° ottobre del 1942, in piena guerra, i due giovani convolano a nozze. “Ci siamo sposati a Santa Maria e ha celebrato Don Giuseppe – indimenticato parroco eretino che ha dato il nome all’omonimo ospizio adiacente la chiesa; n.d.r.- e siamo andati pure in viaggio di nozze, a Venezia” gli occhi le brillano quando racconta questo episodio, e poi prosegue: “ma quasi subito Malfeo ha dovuto lasciarmi e partire soldato, a Padova”.

Malfeo torna a casa molto presto per fortuna: l’anno dopo nasce infatti il loro primo bambino che sarà battezzato col nome Franco. Sembrerebbe una storia a lieto fine: purtroppo però le cose vanno diversamente. Laurina ne parla con serenità, dopo oltre tre quarti di secolo ha fatto pace col suo passato, ma non ha certo cancellato dalla memoria queste pagine crudeli. “Il mio primo bambino si ammala di appendicite e ad appena dieci mesi muore per una peritonite”. Siamo in guerra, non è certo facile trovare i medici e le cure necessarie a scongiurare fatalità sempre incombenti. E il destino si accanisce ancora con Laurina e Malfeo che mettono al mondo un secondo figlio, anche stavolta un maschietto: “Abbiamo chiamato Franco anche quest’altro bambino, ma il Signore lo ha voluto subito con sé”. Se il fratellino maggiore aveva vissuto dieci mesi, il più piccolo muore dopo soli dieci giorni per una improvvisa polmonite, un lutto raddoppiato in brevissimo tempo che per i due giovani sposi segna la fine del sogno di avere degli eredi.

Ma la vita comunque procede. C’è la macelleria da portare avanti: Malfeo si industria al bancone e Laurina impara a fare i conti in cassa. E le cose procedono speditamente fino al 1959, quando c’è da fare i conti con l’ennesimo inaspettato colpo della sorte. L’edificio di via Oberdan dove sta il negozio di carni di Malfeo e Laurina, e dove sopra abitano parecchie persone, da qualche tempo dà segni di cedimento: crepe, suoni sordi che sembrano avvertire dell’imminente tragedia.

“Ero appoggiata alla parete della macelleria e sento che si muove, ci sono crepe che si allargano sempre di più”. Vengono chiamati i pompieri che invitano tutti gli occupanti l’edificio a sgomberare immediatamente; l’area viene delimitata e chiusa a chiunque. Solo in due chiedono di rientrare per recuperare qualcosa dall’appartamento, probabilmente dei soldi ma, proprio mentre i due sono dentro il palazzo crolla. Viene giù di botto – per dissesti idrogeologici, diranno poi le perizie tecniche, e del resto tutto il centro storico di Monterotondo poggia su un’enorme rete di grotte, molte naturali, altre scavate nel corso dei secoli per conservarci vino e altri prodotti. E’ il 5 gennaio 1959 e sotto le macerie rimangono i corpi di una mamma e di suo figlio, che una lapide ricorda ancora: da allora quel luogo di Monterotondo è passato alla memoria come “Lo Sbracato”, una piazza che non era nata per essere una piazza.

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Chi scrive non nasconde di essersi più volte emozionato nell’ascoltare la storia di questa vita. Laurina in apparenza è una delicata “vecchina” ma le contrarietà non hanno fiaccato il suo spirito e la sua tenace forza interiore traspare, immutata. Vederla così umilmente concentrata in questo nostro colloquio – corregge più di una volta i suggerimenti che i due nipoti presenti le offrono (oltre a Nunzia c’è anche Ulisse, figlio di Delfina) e che lei ritiene errati e si fida soltanto dei suoi ricordi, che non falliscono.

“Scrivi pure che amo il mio paese e che non lo cambierei con nessun altro e che sono arrivata al secolo di vita grazie all’aiuto di tutti i miei carissimi nipoti e che ora sono tutta la mia famiglia: Malfeo mi ha lasciato
nel 1966 e cinque anni fa se ne andata anche Giovanna, la più piccola delle mie sorelle. Ho sedici nipoti da parte mia e gli altri quattro da parte di mio marito – un solo nome per tutti, quello di Luisa Marchini, affezionata nipote nonché valente professoressa di lingua e letteratura inglese alle scuole medie e alla quale chi scrive rivolge un doveroso seppure tardivo ringraziamento; n.d.r.-
E così siamo giunti alla fine di questo racconto: Laurina appare rilassata anche se un po’ stanca: “Ho fatto il vaccino pochi giorni fa e un po’ mi ha scombussolato, forse perché sono dovuta andare fino a Mentana ed erano anni che non uscivo”. E’ il caso di commentare questo episodio che definire increscioso è il minimo? Se nemmeno i centenari hanno diritto a vaccinarsi a domicilio vuol dire che qualcosa evidentemente non funziona in questa nostra efficiente e tecnologica società contemporanea.

Siamo giunti ai saluti: Laurina fa uno strappo alla regola che chi scrive accetta bel volentieri: accenna un abbraccio e io una carezza. E’ il minimo che si possa fare: la carissima Laurina è un pezzo di storia di questa Monterotondo che in un secolo è diventata irriconoscibile. L’ultima sua annotazione: “Quest’anno avrebbero compiuto cento anni anche il dottor Alberto Campeggiani, che fino a 95 anni ancora visitava – gratis – alcuni pazienti, e centenaria sarebbe stata anche Irene Alessandri, la mamma di Plautilla Valeriani, coinquilina nel palazzo di via Ventotene e grande amica nonché compagna di infinite conversazioni

 

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