La crisi economica pandemica ha un genere, quello femminile. Già fior di studiosi hanno coniato un termine preciso, che arriva dai paesi anglosassoni, cioè la “She-recession” o “Shecession”, ovvero la recessione che colpisce in particolare le donne. Un confronto non a caso va fatto con la crisi del 2008, quando invece si parlava di Hecession o Mancession, poiché la perdita dei posti di lavoro era soprattutto maschile, concentrata nell’edilizia e nell’industria manifatturiera. Ora, con il 2020, il Covid trascina (sta trascinando) via molte attività femminili, quelle legate ai settori del turismo e degli eventi, mentre il comparto industriale, a maggior presenza maschile, resiste meglio. Pure i dati dell’Istat parlano chiaro: riferendosi all’agosto scorso, rispetto al 2019, il tasso di occupazione femminile ha perso 1,3 punti, scendendo dal 50,2% al 48,9%. Sempre l’Istituto nazionale di statistica segnala invece che per gli uomini, pur nel drammatico momento che riguarda tutti, la perdita si aggira su 0,7 punti, passando dal 68% al 67,3. Insomma, per le donne va decisamene peggio, anche considerando che molte hanno contratti a termine o part-time, i primi a non essere confermati con la ripresa delle attività. Non è una novità in Italia, dove la forza lavoro femminile ufficialmente sfiora il 50% su quella complessiva, con stipendi in media, per uguali mansioni, minori rispetto a quelli maschili. Aumenta il lavoro poi perché con il lockdown e lo smart working sono le donne a doversi sobbarcare, in ogni momento della giornata (e non solo al ritorno a casa), tutte le incombenze delle attività domestiche. Con il rischio di chiusure di asili e altri servizi che potrebbero aiutare ad alleggerire questo carico di lavoro domestico aumentato.